Don Ambrogio Mazzai e la sfida contro un tempo che è sempre poco

L’uomo di Dio sui pedali: Don Ambrogio Mazzai e il ciclismo

Veronese, 29 anni, don Ambrogio Mazzai è sacerdote da quattro anni e ricopre attualmente gli incarichi di vice Parroco nella Parocchia San Massimo Vescovo e di responsabile giovanile della zona nord ovest di Verona, prestando il suo servizio alla comunità e al prossimo.
Una missione quella di Don Ambrogio straordinaria, condita dalle passioni più comuni come quella per la fotografia, che definisce l’evoluzione normale dell’arte pittorica: “Oggi tutti fanno migliaia di foto, ma pochissime degne di nota. Sono certamente bei ricordi, ma come forma d’arte la fotografia è molto significativa. Infatti, un’immagine dice più di mille parole
Ma sono le mille parole e le emozioni scaturite dalle pedalate in sella alla sua bicicletta a dare forma a quella che è l’unica passione che ha il potere di trasformare un uomo in un criceto che soffre sui rulli.

Quando è nata la tua passione per la bici?
“Più o meno a 20 anni. Dovevo trovare un modo per fare moto e, dal momento che sono negato nel calcio, ho iniziato a pedalare. Il ciclismo, però, lo respiravo già in casa con mio fratello Francesco e mio papà Adriano che hanno corso fino al dilettantismo.”

Cosa ti ha spinto a scegliere proprio il ciclismo?
“Il desiderio di conoscere la mia città, Verona, soprattutto nei luoghi meno visitati, godere di un bel panorama, scalando le Torricelle, le colline che la abbracciano, dalle quali si può vedere tutta la città.
Da lì poi ho cominciato ad estendere il “raggio d’azione” fino a visitare in bici tutta la provincia e ho scoperto sì un territorio meraviglioso, ma anche che la bici è il miglior modo per muoversi e fare sport.”

Pedali solo tra le bellezze del Veneto?
“Sono tesserato nel team Avesani e ho fatto qualche competizione amatoriale.
Gareggiare è sempre motivante; la competizione in qualche modo ci appartiene, scorre nel nostro sangue. Ma nel ciclismo c’è una variabile fondamentale: dal momento che uno vince su molti, nasce spontanea la necessità di aiutarsi, di collaborare, di sacrificarsi perché i migliori siano in grado di finalizzare.”

Nel dilemma “il ciclismo è o non è uno sport di squadra”, da che parte ti schieri?
“È sicuramente di squadra, ma vince il migliore. Diciamo che si presta per sua natura a diversi approcci.”

Tra questi, quale ritieni più “tuo”?
“Sono più solitario in questo senso ed in effetti vado meglio nelle cronometro e nelle cronoscalate.
Mi piace sfidare il tempo, soprattutto perché, a parte questo periodo di quarantena, di tempo ne abbiamo sempre poco.”

Credi che questo periodo abbia il potere di trasformare questo nostro concetto di tempo?
“Lo spero, anche se non sarà questa la conseguenza principale di questo periodo.
Siamo abituati ad alzarci presto la mattina e alla sera finire tardi, magari anche con la difficoltà ad addormentarci per i pensieri e le preoccupazioni. Ora, per certi versi, sembra di essere in vacanza o in una sorta di arresti domiciliari. Però non è così che si vive il tempo, ma come un dono prezioso, dando priorità alle cose più importanti, alle cose che ci fanno più bene, oltre a quelle necessarie.”

Le misure del distanziamento sociale hanno influito sulla normalità, ciclismo compreso. Vuoi lanciare un messaggio a tutti gli sportivi e gli appassionati?
“Non so se sono la persona più adatta per lanciare un messaggio, comunque direi di non fermarsi. Usare la creatività per restare in movimento e in forma.
Un corpo sano mantiene la mente sana. Se tutti fossero persone sportive che si tengono in salute, il sistema sanitario ne avrebbe giovato sicuramente, così come ne gioverebbe in tempi normali.”

Com’è stata la Pasqua appena trascorsa?
“Unica direi. Il fatto di non incontrare fisicamente le persone è una sofferenza, ma d’altronde abbiamo oggi dei mezzi di comunicazione eccellenti per essere comunque vicini.”

Come ci si sente ad essere un uomo di Dio e ad esserlo su una bicicletta?
“Per me è un’ottima occasione di riflettere, pregare, “ricaricare le batterie”. Per le altre persone mi sembra che questo sia un’occasione per fare due parole, diverse dai soliti discorsi leggeri che si fanno tra compagni di uscita “normali”.”

Il ciclismo è uno sport che può dare e togliere tanto, che sembra fatichi a stare al passo con i tempi nuovi. Quale chiave utilizzeresti per far evolvere uno sport ancora così “tradizionalista” e cosa diresti a chi i lati negativi di questo ciclismo li ha o li sta subendo?
“Direi che la chiave dell’evoluzione è l’integrazione: ciclismo è salute, benessere, relazioni sociali, turismo e opportunità di lavoro, sport popolare… Quando queste cose andranno a integrarsi e a rafforzarsi a vicenda, questo trascinerà la sua evoluzione. Se solo tutti potessero coglierne il valore, metà problemi sparirebbero. Ma come dice quello: “Se tu hai un prodotto, ma non hai un brand, non hai nulla.” Quindi il brand ciclismo va “venduto” al meglio, perché la sostanza c’è già.
Per quanto riguarda chi subisce o vive le ombre di questo sport, mi sento di dire di non farsi ostacolare dalle disavventure che fanno parte della vita di tutti. Nel ciclismo c’è spazio per tutti e ci sono anche diverse opportunità. Non è quindi necessario diventare pro a tutti i costi, ma dare il meglio di sé. Quando uno fa la sua parte al meglio, può andare a dormire con il cuore in pace.
Le tragedie, poi, sono ferite che difficilmente si rimarginano. Lavorare perché non accadano più è proprio la parte migliore che ognuno può fare, per rendere il ciclismo più sicuro e occasione di gioia.”

Intervista di Ilenia Milanese

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